4 maggio 2020, riflessioni di una psicoterapeuta all’inizio della FASE 2
Il congiunto è mio, e me lo gestisco io. La questione che è emersa in questi giorni a proposito dell’annuncio del Governo di permettere le visite ai “congiunti” nella cosiddetta fase 2 iniziata proprio oggi, solleva un aspetto importante, un lemma in grado di creare un punto di divisione fra gli incontri possibili e quelli ancora da evitare. Ed è solo uno degli aspetti sui quali gli italiani si stanno soffermando per riprendere a condurre una nuova vita in questa famigerata e tanto attesa FASE 2.
La ripresa, peraltro, è per definizione molto più complessa della chiusura, con la stessa asimmetria di tempi e risorse che ha la ricostruzione rispetto alla distruzione. Progettare e comunicare i protocolli di ripresa delle attività per tempo e senza le confusioni della chiusura – in parte giustificate dall’ emergenza – farà la differenza, per la salute e per l’economia. E benchè sia inevitabile sbagliare ancora – come suggeriva Beckett – si tenti almeno di sbagliare meglio.
Cosa resta quindi di questi 50 e più giorni di quarantena? Cosa racconteremo ai nostri figli e nipoti? Cosa ricorderemo tra qualche anno e cosa sceglieremo di dimenticare?
Ognuno, ovviamente, porterà con sé ricordi, pensieri ed emozioni molto diversi. Chi ricorderà vecchie abitudini stravolte e sostituite da una nuova quotidianità, o magari aneddoti divertenti o tristi, chi ricorderà le relazioni e i legami tenuti vivi tramite uno schermo e chi ricorderà coloro che ci hanno lasciato, e ancora, le paure e i dubbi che hanno attraversato l’umanità intera in merito al proprio destino. Altri ricorderanno e racconteranno di quante cose hanno avuto il tempo di fare e imparare, o quante cose hanno scelto di lasciare andare, o magari racconteranno delle liste di cose da fare o da comprare. Quanti desideri messi da parte per quando poi si potrà, si uscirà, si tornerà liberi.
La parola che mi viene in mente e che ha pervaso le mie riflessioni nei primi tempi di quarantena è “surreale”. Un aggettivo che mi rimbomba nella testa, perché ciò che stiamo vivendo, che abbiamo vissuto, a tratti quasi non mi sembrava vero.
Quante emozioni hanno attraversato il mio quotidiano di psicologa e di donna, di moglie e di sorella, di figlia e di nipote, di amica e di conoscente. Sono una persona fortunata: faccio un lavoro che ho scelto, che amo e che in questo momento è utile alla comunità che mi circonda.
L’isolamento affettivo è stata sicuramente la parte più pesante da affrontare per i miei pazienti, ho cercato quindi di esserci in forme nuove, mantenendo il più possibile il contatto tramite un messaggio, una email, una video-chiamata. Alcune delle emozioni legate al contesto di emergenza da COVID-19 hanno attraversato molti dei colloqui che ho tenuto in questo periodo.
Sono infatti svariate le reazioni e le emozioni che ciascuna persona può avere. Molte persone possono sentirsi sopraffatte, confuse o non comprendere quanto stia accadendo. Altre potrebbero sentirsi molto spaventate o ansiose, oppure frastornate e distaccate dalla realtà. Alcune persone potrebbero aver avuto reazioni lievi, mentre altre reazioni più gravi. Le persone angosciate possono sentirsi sopraffatte da preoccupazioni e paure a volte sproporzionate rispetto al pericolo reale di contagio.
In tutti questi casi le persone che scelgono di condividere i propri vissuti con un professionista devono essere aiutate a identificare i loro bisogni più urgenti, a stabilirne la priorità per poi poterli soddisfare, anche a distanza, senza il cosiddetto setting terapeutico.
Obiettivo deve essere non solo la prevenzione e il trattamento di ansia, depressione, insonnia e stress, ma anche, come suggerito dall’Istituto Superiore di Sanità (ISS), il potenziamento delle capacità di adattamento e la promozione dell’empowerment personale.
Lavorare in modo sistemico, senza avere a disposizione gli elementi consueti della relazione in presenza, ha comportato per me una sfida da percorrere parallelamente su due binari.
Il binario della creatività: trovando nuovi modi, nuovi artefatti, nuove soluzioni per affrontare le difficoltà e i limiti del contesto,senza rinunciare alla ricchezza del processo,trasformando ciò che può sembrare un limite, in una risorsa per il rinnovamento.
Il binario della rigorosità: rinunciare alla laboriosità della struttura e stare in relazione con il paziente, con la coppia con la famiglia, in modo etico e responsabile. Facendo ciò che ogni psicoterapeuta sistemico dovrebbe porre alla base del proprio pensiero, ma ancora di più, al centro del proprio lavoro, poiché, come diceva Bateson (1979): “la relazione viene prima, precede”.
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