Il suicidio in adolescenza
Si leggono sempre più casi di adolescenti che tentano il suicidio o che riescono nel loro intento. Le notizie riportano di gesti non prevedibili, del momento, senza preavviso, come se fosse un comportamento non pensato.
Situazioni, sentimenti, esperienze di vita che vanno a gravare su una personalità spesso instabile e su un Io fragile da un punto di vista strutturale. Condizioni che appesantiscono, che schiacciano e che non si riescono ad affrontare in un altro modo. Frutto di chiusure e di silenzi, di sofferenze e di tradimenti da parte di fidanzati, genitori, dalla vita stessa.
Provate a immaginare l’adolescente come l’acrobata che lascia il trapezio per fare un salto verso un nuovo trapezio. Tale salto avviene in sicurezza se la rete relazionale (famiglia e amici) lo sostiene, ma anche la sua rete di pensieri ed emozioni deve essere pronta a elaborare questa fase di passaggio.
Che cosa accade se ciò non avviene? Quando il giovane non si sente sostenuto da una di queste due reti (quella esterna, cioè le relazioni con gli altri, e quella interna, cioè le proprie capacità di affrontare ciò che sta vivendo), vi può essere una caduta. Esempi di queste “cadute” possono essere l’ansia, la depressione, gesti autolesionistici, disturbi dell’alimentazione, fobie sociali, difficoltà ad andare a scuola, episodi di bullismo. In questi casi chiedere aiuto è il primo passo per rialzarsi.
A livello globale, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, i suicidi si collocano al secondo posto tra le cause di morte nella fascia d’età 15-29 anni. Seconda causa di morte anche per i giovani italiani dai 15 ai 24 anni. Sui 4.000 suicidi l’anno registrati nel nostro paese, riferisce ISTAT, oltre il 5% è compiuto da ragazzi sotto i 24 anni.
In Italia il suicidio è la seconda causa di morte tra i giovani.
Secondo l’Osservatorio Nazionale Adolescenza i tentativi di suicidio da parte dei teenager in due anni (dal 2015 al 2017) sono quasi raddoppiati: si è passati dal 3,3% al 5,9%, ovvero 6 su 100 di età tra i 14 e i 19 anni hanno provato a togliersi la vita. Un dramma che riguarda soprattutto le ragazze (71%).
Il 24% degli adolescenti ha invece pensato almeno una volta a un gesto estremo. Una fotografia che mette a nudo un crescente disagio giovanile: ragazzini già stanchi di vivere quando tutto è solo cominciato. Sono sempre più numerosi i casi di cronaca che vedono coinvolti ragazzi che si fanno del male da soli, che tentano il suicidio e che perdono la vita. Troppo spesso non si vuole parlare di autolesionismo e suicidio in adolescenza, e quando lo si fa, anche attraverso i media, lo si fa in modo sbagliato e inadeguato, con il rischio di trasmettergli il messaggio che l’unico modo per comunicare il proprio dolore sia quello di compiere gesti estremi.
L’irruzione della tematica suicidale sulla scena psichica e relazionale lascia tutti i protagonisti coinvolti attoniti e senza parole.
Cosa spinge un adolescente, in una fase del ciclo di vita florida e ricca di potenzialità, a pensare alla propria morte, a idearla e a individuare dei modi per realizzare il progetto e talvolta riuscirci?
L’intenzione e il gesto suicidale in adolescenza quasi mai è espressione sintomatica di una grave malattia mentale, raramente si tratta della manifestazione d’esordio di una depressione maggiore o d psicosi. Rappresentano piuttosto l’espressione di un grave scacco nel processo evolutivo , governato dalla fragilità narcisistica , che espone il soggetto alla sperimentazione di una profonda sofferenza. I ragazzi e le ragazze che pensano alla morte e formulano ideazioni suicidarie sono estremamente sensibili nei confronti della temperatura emotiva e della trama affettiva che si dipana all’interno delle relazioni nelle quali i cercano un’esperienza che sia in grado di nutrire il Sé. Sono individui alla ricerca di uno sguardo di ritorno che sia capace di donare valore e impreziosire, erogare rifornimento narcisistico, nutrimento affettivo e identitario, che contemporaneamente temono il contatto profondo e autentico avvertito come minaccioso poiché espone al rischio di un mancato riconoscimento, di un voltafaccia inaspettato capace di far sperimentare un dolore profondo, annichilente. Si tratta di ragazzi con la pelle sottile (Rosenfeld, 1987), così tanto bisognosi di valorizzazione da avvertire come potenzialmente ustionante uno sguardo che non conferma il proprio valore ma si mostra neutra le, tiepido o, peggio ancora, indifferente alla loro presenza sul palcoscenico sociale.
La sensazione di inadeguatezza profonda del Sé porta a costruire maschere e a falsificare gli aspetti più autentici della propria identità, allo scopo di intercettare ciò che fa piacere all’altro, ciò che coincide con le aspettative dei diversi interlocutori, ciò che garantisce visibilità e successo.
Nella maggior parte dei casi i pensieri legati alla fine della propria esistenza accompagnano a lungo l’adolescente che tenterà il suicidio. Solitamente il gesto suicidale non è frutto di un’azione impulsiva che viene agita improvvisamente, se non in quadri di funzionamento al limite, e non è raro ritrovare minacce o segnali precedenti legati all’intenzione di uccidersi, di sparire, di cessare i rapporti con il mondo.
Molto spesso la reazione adulta tende a minimizzare la questione suicidale adolescenziale , riducendo il gesto a un atto dimostrativo. Considerandola un’azione non orientata a togliersi la vita ma piuttosto una condotta volta a ricevere nuove attenzioni da parte del genitore di riferimento, in qualche modo una “ragazzata”. Questa interpretazione difensiva sostiene la frequente reazione degli adulti davanti al gesto suicidale, che è quella di ridimensionare, se non addirittura di banalizzarne, la portata. Troppo difficile accettare l’intenzionalità di un ragazzo o di una ragazza, farsi carico della drammaticità della vicenda, con il conseguente rischio di non accogliere il disperato tentativo di dar voce a un dolore muto, profondo, che abita la mente di un che vuole morire.
Nella consultazione con l’adolescente in crisi è auspicabile, fin dal primo colloquio, indagare l’area suicidale. Domandare a un adolescente se abbia mai pensato di morire dovrebbe diventare una prassi, un’opportunità offerta di esprimere speculazioni e intenzioni private, spesso nascoste, occultate da tempo anche a causa della vergogna sperimentata solo per il fatto di averci pensato.
Bisogna avere il coraggio di attrezzarsi per intercettare un pensiero che troppo spesso rimane segreto e che invece abita la mente dell’adolescente anche in modo pervasivo. Certamente porre questa domanda e ascoltare la risposta, il più delle volte affermativa, produce ansia, preoccupazione e angoscia nello psicoterapeuta, che tuttavia deve porsi come obiettivo, fin dalle prime fasi della consultazione, quello di fare emergere dall’area del segreto la fantasia e il progetto suicidale, trasformandoli in parole e rendendoli narrazione condivisa, in modo da depotenziarne il potere ipnotico e seduttivo (Castellucci, 2009). I ragazzi e le ragazze che pensano alla morte hanno imparato da tempo che questo è un argomento tabù all’interno delle relazioni: spesso hanno fatto dei tentativi per comunicare ai propri genitori, agli insegnanti o ai coetanei il terribile pensiero che si annida nella loro mente, ma sono stati subito zittiti dalla banalizzazione o dall’indifferenza di fronte alla loro comunicazione. La sofferenza, il dolore sono banditi dalla relazione, soprattutto se accennano alla volontà di morire. Gli adolescenti suicidali hanno capito presto che non si può parlare, meglio tacere e coltivare in segreto le proprie fantasie di morte. La relazione terapeutica , al contrario, consente al dolore di trovare pieno diritto di cittadinanza, accoglie il rifugiato che vive nella mente del giovane paziente.
Favorire lo sviluppo di un’alleanza positiva e forte con tali pazienti può facilitare il coinvolgimento e mitigare le resistenze al cambiamento, in un contesto relazionale supportivo ed accogliente. In questa particolare tipologia di pazienti l’alleanza terapeutica risulta quindi un elemento fondamentale anche perché, come suggerisce la ricerca, essa sembra essere un fattore correlato al cambiamento e agli esiti positivi del trattamento.
Nel lavoro psicoterapeutico con l’adolescente è importante prendere in considerazione diverse aree della sua vita tra cui famiglia, gruppo amicale ristretto e sociale, luoghi frequentati di maggior assiduità.
Lo psicoterapeuta che prende in carico un adolescente deve prima di tutto porsi alcuni quesiti in merito a chi ha di fronte, alla sua età e al momento storico nel quale si sta sperimentando. Essere informati sulla generazione attuale può aiutare nelle fasi iniziali di conoscenza, aggancio del paziente ma anche per mantenere la relazione terapeutica salda, al punto tale da evitarne precoci abbandoni.
Dott.ssa Fabrizia MartanoPsicologa, Psicoterapeuta
L’adolescente di Matteo Lancini, Loredana Cirillo, Tania Scodeggio edito da Raffaello Cortina Editore
Parlare della morte, Castellucci I. (2009)