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Il trauma delle violenze familiari sui bambini

I dati più recenti segnalano che dal 12% al 22% dei bambini e degli adolescenti soffre di disturbi psicologici. Tali bambini si presentano nell’area delle cure pediatriche con sintomi di sofferenza somatica, riferiti praticamente a tutti gli organi. Il disturbo di somatizzazione ricorrente è risultato correlato ad elevato rischio per quanto riguarda lo stato di salute e alla presenza di problemi psicosociali, di separazione e di relazione famigliare disfunzionali ( American PsychiatricAssociation, 2019).
Per violenza assistita intrafamiliare si intende l’esperire da parte della/del bambina/o e adolescente qualsiasi forma di maltrattamento compiuto attraverso atti di violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale, economica e atti persecutori (c.d. stalking) su figure di riferimento o su altre figure affettivamente significative, adulte o minorenni. Il/la bambino/a o l’adolescente può farne esperienza direttamente (quando la violenza/omicidio avviene nel suo campo percettivo), indirettamente (quando il/la minorenne è o viene a conoscenza della violenza/omicidio), e/o percependone gli effetti acuti e cronici, fisici e psicologici. 

Solo di recente l’attenzione è stata spostata anche sui risvolti psicologici delle prevaricazioni all’interno del nucleo familiare con specifica attenzione al minore e ai pregiudizi conseguenza dell’ambiente violento e malsano in cui ci si trova a vivere un momento tanto cruciale per lo sviluppo di un soggetto e della sua personalità. Oltre ai pregiudizi all’integrità fisica si generano inevitabilmente disagi morali dovuti anche alla perenne angoscia per possibili reiterazioni. L’aspetto più critico degli abusi perpetrati tra le mura domestiche deriva dal fatto che sono proprio i congiunti, coloro dai quali normalmente ci si aspetta affetto, comprensione, partecipazione al proprio sviluppo personale e protezione, che diventano i “cattivi”, persone da cui difendersi. È una situazione estremamente destabilizzante e quasi “contro-natura”.
II DSM-5 nella sua ultima versione include fra le cause del Disturbo da stress post-traumatico l’essere testimoni di eventi quali la morte innaturale, l’abuso fisico e sessuale dovuto ad aggressione violenta, la violenza domestica. Viene, inoltre, dato maggior rilievo all’importanza della relazione tra genitori e figli e l’eventuale impatto traumatico di cure inadeguate e non responsive, tanto da introdurre il Disturbo reattivo dell’attaccamento e il Disturbo da disimpegno sociale disinibito, nell’ambito della sezione Disturbi collegati a traumi e fattori stressanti. In sintesi viene concentrata l’attenzione sui disturbi in cui un evento traumatico o stressante ha causato l’esordio dei sintomi per definire una diagnosi infantile. 
L’esposizione al trauma o allo stress può avere come conseguenza una vasta gamma di sintomi, a seconda dell’età, della precedente esposizione a traumi, del temperamento e dei fattori ambientali. Possono essere internalizzati (come l’ansia), esternalizzati (rabbia, aggressività), o una combinazione di entrambi.

I sintomi correlati sono divisi in quattro gruppi:

  • sintomi intrusivi (per esempio: ricordi intrusivi, sogni spiacevoli, reazioni dissociative o flashback, disagio intenso e risposta fisiologica ai fattori scatenanti);
  • evitamento persistente di ricordi, pensieri o sentimenti che circondano l’evento traumatico o evitamento di fattori esterni (per es, persone, posti). 
  • modificazioni negative persistenti nei pensieri e nell’umore (per es distorsioni cognitive, distacco);
  • ipervigilanza o aumento dell’arousal (per es, aggressività, scoppi di collera, alterazioni del sonno, problemi di concentrazione, comportamento spericolato o autodistruttivo).

Il disturbo post-traumatico viene opportunamente differenziato secondo l’età, fornendo criteri separati e specifici per i bambini sotto i 6 anni con una differenza nel numero di sintomi richiesti per fare diagnosi. Inoltre nel criterio A del Disturbo si parla di assistere direttamente a eventi traumatici accaduti ad altri, in particolare ai caregiver primari.
Il DSM-5 da ragione di un’altra forma di risposta al trauma, la dissociazione, includendo i seguenti specificatori per il disturbo post-traumatico:

  • con sintomi dissociativi (depersonalizzazione o derealizzazione);
  • con espressione ritardata (in cui i criteri non sono soddisfatti completamente fino a sei mesi dopo l’evento).

La dimensione dissociativa del trauma è riconosciuta da tempo: in psicopatologia sono concetti strettamente associati non solo nell’evidenza epistemologica del rapporto causale tra sviluppo traumatico e sintomi o disturbi dissociativi, ma anche e soprattutto nel meccanismo patogenetico del trauma (Dutra et al., 2009). Come spiega opportunamente Liotti (2011) il trauma attiva arcaici meccanismi di difesa dalle minacce ambientali (immobilità tonica o freezing e immobilità dopo le reazioni di attacco-fuga) che provocano il distacco dall’usuale esperienza del sé e del mondo esterno e conseguenti sintomi dissociativi (depersonalizzazione e derealizzazione) . Questo distacco implica una brusca sospensione nell’esercizio delle normali capacità di riflessione e mentalizzazione e quindi un ostacolo all’integrazione dell’evento traumatico nella continuità della vita psichica. 
Da tale disintegrazione delle memorie traumatiche rispetto al flusso continuo dell’autocoscienza e della costruzione dei significati deriva la frammentazione della rappresentazione di sé, o meglio la molteplicità non integrata degli stati dell’io, che caratterizza la dissociazione patologica.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) sembra aver previsto dei cambiamenti nella nuova versione ICD 11, di prossima pubblicazione. con riferimento ai criteri diagnostici per la diagnosi di PTSD. Tale disturbo, compreso tra i disturbi legati a stress e traumi, prevede due diagnosi correlate, ovvero il Disturbo post-traumatico da stress (PTSD) e il PTSD complesso, considerati disturbi “fratelli” (Maercker et al., 2013). Effettivamente nel tempo sono state proposte categorie diagnostiche più ampie non ricomprese nel DSM: ci riferiamo al Disturbo post-traumatico da stress complesso (Herman, 1992) che descrive in maniera più ampia gli esiti derivanti da traumi prolungati e ripetuti di ordine relazionale. Infatti il trauma può essere generato dall’esposizione a un singolo evento circoscritto nel tempo oppure può essere l’espressione dell’esposizione a una condizione di stress traumatico persistente nel tempo, spesso caratterizzata dalla esposizione simultanea a forme diverse di vittimizzazione.
Numerose ricerche scientifiche mostrano che l’esposizione a traumi può avere un impatto profondo e duraturo sullo sviluppo dell’individuo, specie se avviene in età critiche o durante passaggi evolutivi, se comporta un’alterazione o interruzione delle relazioni di attaccamento de determina una violazione del sé (Ford, 2010). I bambini con attaccamento disorganizzato costruiscono un modello operativo interno caratterizzato da molteplicità, incoerenza e frammentazione e hanno la tendenza a costruire rappresentazioni di sé con l’altro nell’attaccamento molteplici e incompatibili tra loro: tali rappresentazioni, nel corso dello sviluppo, assumono le sembianze di temi narrativi e diventano dei modelli per attribuire significato agli eventi interpersonali, i quali assumono anch’essi la caratteristica di essere frammentati e dissociati (Liotti, 2001). 

Il danno sulle relazioni

I bambini e ragazzi che sperimentano la violenza in famiglia subiscono gravi danni alle relazioni con i caregiver, poiché vengono intaccati i loro legami di attaccamento. Le condizioni emotive dei genitori nella violenza, come vittima e come maltrattante, non permettono lo strutturarsi di un attaccamento sicuro, che protegge dai pericoli, regola le emozioni e rassicura (Attili, 2013).
Negli ultimi anni la letteratura e la ricerca suggeriscono la teoria dell’attaccamento come valido riferimento teorico attraverso cui interpretare gli effetti dei traumi relazionali di tipo cronico, quali le esperienze di violenza intrafamiliare, sull’adattamento psicologico delle giovani vittime. Più specificatamente viene evidenziato come l’insicurezza e la disorganizzazione dell’attaccamento possano rappresentare interessanti “chiavi di lettura” per meglio interpretare il complesso assetto psicologico dei bambini che vivono stabilmente relazioni maltrattanti, trascuranti o abusanti. L’attaccamento disorganizzato, fortemente correlato alla violenza, costituisce un importante fattore di rischio per l’insorgenza di sintomi di esternalizzazione, dissociativi e post-traumatici (Camisasca, 2014).
La letteratura ha chiarito come modalità di accudimento spaventanti. spaventate, dissociate (Main & Hesse, 1990; Hesse & Main, 2006) o estremamente insensibili (Lyons-Ruth, Bronfman, & Parsons, 1999) costituiscano una rilevante precondizione rispetto all’insorgenza della disorganizzazione dell’attaccamento. Questo perché tali modalità di cura espongono. come già sottolineato, sottolineato il bambino a una situazione paradossale in cui i caregiver diviene al tempo stesso fonte di pericolo-paura e di protezione rassicurazione (Attili, 2001, 2007, Lyons Ruth, Bronfiman, & Arwood, 1999, Mais & Hesse, 1990) In quei contesti relazionali si crea una spirale di paura, che non è di per sé disorganizzante, ma lo diviene nel momento in cui il bambino non trova una soluzione organizzata nel sistema di fesa (attraverso risposte di fuga o di attacco o in quello di attaccamento attraverso la ricerca nel caregiver di vicinanza protettiva e conforto. Per questa ragione, non riuscendo a fronteggiare l’intensa paura, si verifica nel bambino un crollo delle strategie comportamentali e attentive” con la conseguente formazione di MOI (Modelli Operativi Interni) di tipo disorganizzato. Tali rappresentazioni mentali, oltre che emotivamente cariche dell’esperienza drammatica della paura senza soluzione, sono multiple, an integrate e intrinsecamente dissociate rispetto ai contenuti di sé e dell’altro (Hewe & Main, 2000k Liotti, 2006, Liotti & Farina, 2011).